Non è mai facile né consigliato “toccare” i grandi capolavori della letteratura. Eppure, Guillermo del Toro ha sapientemente reinterpretato l’opera di Collodi, rispettandola senza mai stravolgerla completamente
Un viaggio tra emozione, gioia e dolore. Una storia senza tempo che, quando i giornali e la letteratura erano pensati solo per la classe colta, è piombata sul mercato come un terremoto. E ha scosso i cuori di milioni di persone. Pinocchio ha il fascino della favola che non conosce età e non smette mai di insegnare qualcosa, anche quando sembra aver già raccontato tutto. Un’opera intoccabile, quasi sacra.
Guillermo del Toro, però, ha saputo riscrivere il capolavoro di Collodi alla sua maniera, con rispetto e senza stravolgerlo. “Pinocchio” è un’ampia trattazione su come elaborare un lutto e insegna quanto sia sbagliato pensare e pretendere che qualcuno possa somigliare a qualcun altro. Una pellicola che, tra gli altri temi, tratta la caducità della vita e denuncia e condanna l’immortalità, per sfociare in un finale intenso ed emotivo. Del Toro mescola l’horror e il fiabesco, dipingendo in Geppetto un padre disperato e in balia dell’alcol che, in un moto d’ira, crea Pinocchio per sopperire alla morte del figlio Carlo, ucciso da una bomba durante la Prima Guerra Mondiale. Una scelta d’impeto che lo terrorizza e lo fortifica al contempo, accompagnandolo in una complicata evoluzione interiore e psicologica.
Tenendo in parte fede al racconto originale, il regista lo modella e critica Mussolini e la guerra anche attraverso personaggi grotteschi – uno su tutti la scimmia “Spazzatura” –, ricordando come la bontà d’animo e l’umanità si nascondano anche dietro volti orribili e trasandati, nell’immaginario collettivo simboli di angosce e tormenti. Una lezione etica e di vita, nel riadattamento sapiente e scrupoloso, al passo con i tempi, di un grande classico italiano.
Foto: Netflix