Il telecronista di Eurosport ha raccontato di come sia nata la sua passione. E sulla cultura dello sport: “Andrebbe cambiata quella dell’informazione, in generale. Lo sport si attacca molto alla pancia delle persone”
Studio, pratica e tanta passione. E il compito di emozionare chi, dal divano di casa, guarda giocare la propria squadra del cuore davanti a uno schermo. Voce di punta di Eurosport e grande appassionato di pallacanestro, Mario Castelli si è raccontato in una lunga intervista.
Com’è nata la tua passione per la telecronaca?
Non c’è stato un momento preciso in cui ho deciso di fare questo lavoro. Da bambino ero appassionatissimo di sport e in televisione li guardavo tutti: calcio, basket, pallavolo, sci, formula uno…. Quando guardavo le partite, mi piaceva soffermarmi non tanto sull’azione, quanto sulle reazioni del pubblico e sul momento in cui vedevo nascere l’emozione sul volto delle persone. Mi piaceva pensare che, un giorno, avrei voluto anch’io far nascere quell’emozione, o come sportivo o come commentatore. Ho giocato a pallacanestro e fatto anche la mia onesta figura da “Minors” (ride, ndr); alla fine, però, la seconda strada è stata la migliore. Da piccolo giocavo a fare la telecronaca e, provandoci per davvero, sono riuscito a farlo diventare un lavoro.
Tra tutti, quindi, il basket è il “tuo” sport…
Assolutamente. Sono nato in una famiglia non particolarmente appassionata di palla a spicchi. Da ragazzino giocavo a calcio e guardavo più calcio. Poi una sera, quando ero in quinta elementare, sono stato portato nel centro sportivo della mia città per una festa di carnevale e dentro al palazzetto stavano giocando una partita di basket. Incuriosito dal rumore, sono entrato e sono stato folgorato. Ho obbligato mio papà a portarmi alla partita il sabato dopo e, da quel momento, tutti i sabati sono andato al palazzetto. L’anno successivo ho deciso di giocare a basket e, con il tempo, mi sono appassionato sempre di più.
Come ti prepari a raccontare una partita?
Comincio diversi giorni prima: innanzitutto guardo le ultime partite delle squadre che devo commentare. Poi, durante la settimana, ricevo ogni giorno la rassegna stampa della Lega Basket con gli articoli dei giornali nazionali e locali: così riesco a rimanere aggiornato quotidianamente su tutte le squadre. Ogni volta che devo commentare una particolare partita, preparo una serie di tabelle – una per ogni squadra – con statistiche, dati anagrafici, notizie sulla carriera e palmarès dei vari giocatori. Oltre a queste, anche un po’ di fogli di testo dove segno le notizie sulla partita: chi è assente, la classifica, i precedenti tra le squadre, le statistiche complessive, aneddoti, gli impegni futuri…. Cerco sempre di costruire queste note seguendo un mio schema mentale ben preciso in modo che, mentre sto facendo la telecronaca e ho un secondo per trovare il dato che mi serve, so già dove andare a controllare. Ci vuole tempo, c’è tanta preparazione e tanto lavoro dietro.
La postazione per la telecronaca è sempre ottimale?
Questa è una grossa battaglia di Andrea Meneghin (ride, ndr). In quasi tutti i palazzetti la postazione è in un angolo del campo, sul lato corto. A noi piacerebbe molto essere in posizione centrale, lungo la linea laterale e leggermente rialzati, in modo da vedere molto meglio il gioco. A Varese abbiamo una postazione del genere. Alla fine, però, anche nell’angolino a bordo campo si vede bene e abbiamo il monitor che ci aiuta.
Un aneddoto divertente durante una diretta?
Si cerca sempre di tenere tutto sotto controllo e, per evitare inconvenienti, prima della partita si va in bagno. Capita la volta in cui, magari, te ne dimentichi e a metà secondo quarto ti sta esplodendo la vescica. E dentro di te, ogni volta che c’è un fischio o il gioco è fermo, maledici l’arbitro. È capitato una volta che stessi soffrendo e aspettando la fine del primo tempo come fosse la salvezza.
Viaggi tanto e hai vissuto l’atmosfera di diversi palazzetti e arene. Dove hai sentito più calore e tifo appassionato per la squadra di casa?
Ho commentato delle partite a Sassari e c’era un ambiente molto tosto, così come al PalaDozza (Bologna, ndr) per la Fortitudo. Quando i tifosi sono carichi, anche Varese è una bolgia infernale. In Europa sono stato a Kaunas e c’era un bell’ambiente.
C’è una telecronaca a cui sei particolarmente legato?
Ricordo molto volentieri la finale di Supercoppa Italiana del 2019, a Bari: una gran partita tra Sassari e Venezia, finita al supplementare. Ma anche le finali di Coppa Italia dell’anno scorso e dell’anno prima. Non posso non citare anche l’ultima finale scudetto perché è stata la prima che ho commentato: Virtus-Milano, poteva andare peggio (ndr, ride). Un’altra è la finale femminile delle Olimpiadi: sebbene gli Stati Uniti fossero nettamente favoriti, è stata comunque un’emozione. E, infine, una partita che non è una finale, ma ricordo particolarmente, è un’incredibile Sassari-Milano in Sardegna, terminata al supplementare. Negli ultimi minuti dei regolamentari Bamforth permise ai sardi di pareggiare con tre triple e io finii senza voce. Se i match fossero sempre tutti così, sarebbe molto divertente.
Telecronisti si nasce o si diventa?
Entrambi. Un minimo bisogna essere predisposti ed avere talento. È come essere giocatori di calcio o di basket: si può migliorare, ma è necessario avere una base di partenza. Per esempio, mi capita di ritrovare nel computer delle telecronache che ho fatto circa 14 anni fa: le apro, ne ascolto un pezzo e le chiudo inorridito dicendo “Ma come mi è venuto in mente di aprirle”. Ero più grezzo, ma con il tempo, anche sbagliando, sono riuscito a capire come commentare. Inoltre, si migliora ascoltando gli altri, confrontandosi, capendo che parole usano i colleghi. C’è chi preferisce un linguaggio più semplice e chi invece cerca di spiegare i concetti in maniera più arzigogolata, ma diventano scelte personali. Ognuno costruisce il proprio stile.
Alla luce dei recenti e ottimi risultati dell’Italbasket, credi che le squadre italiane investano più di prima sui giovani?
Non voglio fare quello che vede tutto grigio ma, parlando di settore giovanile, mi sembra che il livello sia sempre più basso ogni anno che passa. È vero che qualche ragazzo forte salta fuori ugualmente, ma più per caso. Non mi sembra che si investa in particolare sul settore giovanile: nascono poche gemme qua e là, ma non perché ci sia veramente un’attenzione ai ragazzi. Non sono molto ottimista dal punto di vista strutturale. È vero poi che, anche in queste condizioni, abbiamo Spagnolo, Procida… e qualche altro talento verrà fuori nei prossimi anni. Voglio sperare che ci sia un po’ di ricambio per la nazionale, ma di sicuro non possiamo paragonarci a chi lavora veramente bene a livello di settore giovanile, come la Spagna. La strada è ancora molto lunga.
Si parla tanto della possibilità che Paolo Banchero abbracci la nostra nazionale, ma non è assodato che scelga il tricolore. Pensi che ci siano buone chance di vederlo in azzurro?
Fin dall’inizio, non ho mai visto grandi chance. Ha iniziato la sua prima stagione NBA, sta dominando e andando quasi sempre oltre i 20 punti. Se non già quest’anno, almeno dall’anno prossimo sarà un All-Star e ho l’impressione che Team USA possa bussare alla porta. A quel punto, ci penserà. Anche perché è nato e cresciuto negli USA, non è mai stato in Italia e non parla italiano. Gli avrà raccontato qualcosa il nonno, ma non penso sia abbastanza per dire “Mi sento italiano”. Se la sua vera nazione gli permette di giocare mondiali e olimpiadi e vincerli, ci penserà più volte prima di venire a giocare con l’Italia.
A settembre l’Italvolley si laureava campione del mondo e la nazionale di pallacanestro sconfiggeva la Serbia agli Europei. Il giorno dopo, i media tradizionali hanno titolato su Juventus-Salernitana. Va cambiata la cultura dello sport in Italia?
Andrebbe cambiata la cultura dell’informazione, in generale. Qualche giorno fa, quando è stata diffusa la notizia che due bombe erano cadute poco al di là del confine con la Polonia ed erano morte alcune persone, non si era ancora capito cosa fosse successo, ma i giornali italiani titolavano a caratteri cubitali “Guerra in Europa”. C’è l’esigenza di essere subito allarmisti, sensazionalisti e cercare lo scoop. Fortunatamente ci sono ancora alcuni, ma pochi giornali, che lavorano bene. I quotidiani degli altri Paesi informano su ciò che è successo e non cercano di catturare a tutti i costi l’attenzione delle persone. Lo sport si attacca ancora di più alla pancia della gente e al tifo: se il calcio è lo sport più seguito, si cercherà di privilegiarlo. Io sono dell’idea che le persone vogliano leggere determinati argomenti perché i giornali le hanno abituate così. Se si provasse a variare un po’, come fanno in altri Paesi, i lettori comincerebbero ad interessarsi a più temi e scoprire più interessi. Se si ritira Federer, la prima pagina va data a lui, non a Lazio-Sturm Graz di Europa League. Ci sono delle priorità anche nell’informazione. Dovrebbe essere l’ambiente del giornalismo sportivo, per primo, a provare a cambiare la situazione: bisogna abituare la gente ad avere una sensibilità diversa per differenti discipline e a non concentrarsi su un unico sport. Anche come Paese, abbiamo una mentalità chiusa: al di là del calcio, eccelliamo nella pallavolo e nella scherma perché abbiamo delle scuole, ma non perché ci sia un interesse particolare. Da questo punto di vista, siamo una delle nazioni più calcio-centriche che ci siano.
A tal proposito… un’opinione sull’organizzazione del mondiale di calcio in Qatar?
Mi sembrava una follia già quando sono stati assegnati. Era palese a tutti che fosse per una questione economica e non di organizzazione: non avrebbe senso, altrimenti, giocare dei mondiali in un Paese che non ha una cultura calcistica di nessun tipo, con gli stadi costruiti uno accanto all’altro. Cosa ti può dare un luogo del genere, se non soldi? Con tutti i retroscena che sono venuti a galla sugli immigrati semi-schiavizzati, i morti e la discriminazione di minoranze, oltre alla presenza di un regime semi-autoritario, il fatto che la FIFA non abbia mai preso una posizione per provare a cambiare la situazione mi è sembrato veramente demoralizzante. Evidentemente non ha avuto l’interesse di farlo perché gli scandali scoppiati sono stati nascosti. Quando anche sulla polemica degli ultimi giorni, scaturita dall’iniziativa di sette squadre di indossare la fascia da capitano di colore arcobaleno per mandare un segnale sul piano dei diritti civili, la FIFA non è intervenuta pur di non infastidire il Qatar, mi sono cadute veramente le braccia. Noi occidentali abbiamo tanti diritti che diamo per scontati ma, quando dobbiamo provare a prendere una posizione salda per i diritti degli altri, non siamo così saldi.
Infine, un consiglio ai giovani che vorrebbero diventare telecronisti sportivi?
Fare pratica e avere la capacità di ascoltare gli altri e assorbirne il meglio. Si apprende anche da chi commenta a livelli inferiori o in una lingua diversa. Io ascolto anche le telecronache in inglese e cerco di capire lo stile di un collega, come lavora, che parole sceglie. Magari non condivido qualcosa, ma confrontandosi con gli altri si può apprendere molto. Se anche si ha una predisposizione e un po’ di talento, non si è mai già “pronti”. Si impara sbagliando e correggendosi la volta successiva, senza avere l’arroganza di pensare di essere i migliori.